venerdì 1 dicembre 2017

Cinzia BALDAZZI - “Progetti di delirio” tra poesia e alienazione


 




Al Teatro Ramarini di Monterotondo, serata unica per Progetti di delirio, testo di Alberto Patelli con liriche di Angelo Mancini. Un viaggio tra alienazione e poesia, memoria e violenza, cronaca e avanguardia.
 

Sulle strade di Monterotondo, dopo un brevissimo tragitto da Roma, pensando allo spettacolo al quale sono in attesa di assistere nel Teatro Ramarini, intravedo dal finestrino dell’automobile il paesaggio in corsa inserito in una specie di quadro metafisico in bianco e nero: color inchiostro della carta, delle pagine, dove sono ospitate parole scritte della letteratura, in prosa e poesia, copioni drammaturgici e filmici. Giunta nell’ampia sala, circondata da un pubblico ben assortito, amando da sempre intensamente la poesia sono incuriosita e attratta dall’idea di assistere a Progetti di delirio, composto dal testo di Alberto Patelli e dalle liriche dell’amico poeta Angelo Mancini.
Organizzato dall’Associazione Culturale “Camera 23” in collaborazione con il Comune di Monterotondo e la Fondazione ICM, nasce da un’idea di impianto tecnico-narrativo di chiara matrice semantica intertestuale, incentrato com’è sul processo di trasformazione meta-linguistica di alcune liriche di Mancini (tratte dall’antologia omonima di Sovera Edizioni) in una performance tra le quinte, con la musica di Davide Di Francescantonio. Leggendo la locandina, ed essendo anche una critica letteraria particolarmente impegnata nel mondo dei versi, suppongo così di trascorrere una serata densa di emozioni abbastanza singolari per essere vissute a ridosso di una ribalta.
Dinanzi alla platea assorta nelle luci ancora accese, l’uomo di strada (Tony Fusaro) accede dal foyer all’ampio palcoscenico: con passi silenziosi, ha percorso il corridoio di destra accanto alle poltrone, quasi fosse una pirandelliana creatura-personaggio proveniente da quel microcosmo di false apparenze, salendo le scalette del proscenio quando il pesante sipario è chiuso. Dunque, per adesso, sono tranquilla e rassicurata: ma, non appena, tra i fogli sistemati sul leggio, l’attenzione è richiamata sulla fotografia sbiadita di un vecchio paese, avverto l’impressione inquietante e insolita di aprire e scorrere le pagine di un libro di figure, in grado, però, non di mostrarsi per noi (règle du théâtre); al contrario, in un’atmosfera di sospensione abbastanza impegnativa, sono in attesa che le nostre impressioni le esortino a manifestarsi evocandole. Ed ecco il carretto, il somaro, le donne, il campanile, la chiesetta.
 

Mi chiedo subito fino a quale punto la scena mostrata voglia apparire pertanto reale, pur nell’evidente matrice immaginaria, e se per tutta la durata del viaggio utopico costruito - in procinto di inaugurarsi tra una battuta, un verso, un accordo di note, una proiezione sul fondo - l’intenzione strutturale sia quella di animare un’insistente visione dove proprio la domanda se guardare-ascoltare, o rivolgersi al vero o falso, sia anacronistica. In un ciclo dialettico di essere e volere, sento anch’io l’impulso di vivere “dentro” quella foto, e non in una metropoli caotica. Il problema, conferma il viaggiatore, non è comunque l’ossessionante ordinario traffico, piuttosto il non trovare «parcheggi per il mio disorientamento».
Il personaggio, il non-eroe trascinato dal voler divenire, poco dopo se ne va nella direzione di provenienza: benché lo sguardo, mentre si allontana da noi, sia presto ricondotto lì, sul pesante tendaggio rosso, da dove sbuca una ragazza in vestaglia bianca. È una giovane insolitamente florida per le scene, ma il realismo del corpo tonico e delle curve morbide, invece di stupire perché fuori luogo, cattura lo sguardo con realistica ed elegante naturalezza. L’abilissima, però non istrionica Francesca Cama, si muove perciò flessuosa e acrobatica sulla ristretta striscia della ribalta, nel silenzio generale, consumando un intervallo spazio-temporale difficile da misurare. Non si sa da dove venga, né dove vada, e sorride quasi confrontandosi con un gioco di specchi all’altezza di rifletterne mille volte il profilo: in poche linee, tra i margini della fantasia e del concreto, sorride danzando con lo sguardo rivolto lontano, non tradendo alcun segreto prima di scomparire di nuovo dietro il panneggio.
Una volta spalancato il palcoscenico alla nostra vista, ho già compreso che l’impianto ideativo della mise-en-scène, e delle poesie suoi veicoli d’eccezione, è basato su quanto i costumi-valori predominanti oggi nelle società consumistiche occidentali siano diametralmente opposti all’immaginaria comunità dell’immediato. Nel lato sinistro estremo, la figura di un ragazzino chino sul banco a scrivere cede il posto a un Uomo in trench, quasi fosse gettato a forza al centro del palco, accompagnato da una musica divenuta incalzante, nevrotica, mescolata a rumori di traffico, sirene di ambulanze, squilli di cellulari: ne nasce un confronto incline a violare i limiti imposti dai media al poeta, all’artista, all’attore nel dichiarare la loro presenza, nel far conoscere i bisogni che hanno l’uno dell’altro, poiché gli effetti di tutte le arti contribuiscono urgenti a colmare le voragini minacciose, a volte adeguati a tormentare noi e chi abbiamo accanto.
 

«Automobilisti imbottigliati nel traffico della città (e senza televisione) la nevrosi esplode inevitabile con le teste fuori dai finestrini fissano gli specchietti retrovisori nell’aria uno strano odore di oscuri prodotti chimici enormi cartelli pubblicitari e striscioni vistosamente colorati affollano le vie mille ristoranti e negozi cozzano l’uno contro l’altro i volti della gente sono smarriti preoccupati carichi di tensione sirene assordanti inquietanti di ambulanze e polizia spaccano cuore e cervello per terra al margine della strada accanto a dei cassonetti colmi di rifiuti cominciano ad accendersi tutt’intorno le prime luci artificiali».
Il monologo dell’attore Corrado Bega è fuori dubbio di alta dignità attoriale, con una tecnica esperta, addestrato a sostenere apnee di respiro per lunghi periodi allo scopo di mantenere la drammaticità serrata del testo: ne intercetto un flusso ininterrotto di avanguardistica memoria, proposto con una metodologia identificativa e naturalista primaria, seppure idonea a conservare quanto di alienante e di impersonale giunge dai messaggi in corso. Una vita umana tra le invadenze delle réclame, l’inquinamento dei motori, il traffico bloccato e impazzito, le sonorità dei clacson e il trillo dei telefonini. Tuttavia, nella storia delle percezioni umane, sono stati sempre molto rari i cambiamenti di rotta radicali. Se così non fosse, è chiaro, non potremmo tradurre nel codice prescelto, sia pure in misura imperfetta, e con il sospetto di grande approssimazione, le forme immaginative intellettuali anteriori alla società di massa: citiamo, ad esempio, i miti, le poetiche, le fonti ispirative precedenti il XX secolo, come fossero una parte perpetua integrante delle costellazioni che formano in ognuno la coscienza.

 
Ed è stata proprio la scrittura a stabilizzare quella che era solo un’ipotesi di continuità: di conseguenza, in Progetti di delirio appare attualissima una riscrittura originale dei continuum testuali e iconografici lasciati in eredità dal Gruppo 63 (da Manganelli a Celati, da Balestrini a Giuliani) fino ai fautori della scomposizione del linguaggio pubblicitario (uno su tutti: Lamberto Pignotti). Forse, l’icona più inquietante appartiene a un padre alla guida, attaccato allo smartphone e impegnato a suonare ritmicamente il clacson mentre urla al figlioletto, nel sedile posteriore, di smettere di recitare a memoria la poesia di Giovanni Pascoli imparata a scuola. In platea è ormai diffusa, lo sento, la certezza di quanto la nostra civiltà e comunità di appartenenza siano soprattutto civiltà della parola, trascritta, recitata, azionata, cantata. Negli intervalli in cui è stato disponibile un itinerario oltre il ricordo personale, allora è emerso il discorso poetico, sia esteriore che interiore. In proposito, lo studioso e saggista francese George Steiner affermava: «Bisogna ancora scrivere la storia affascinante, e forse decisiva, delle diverse retoriche e dei vari livelli idiomatici di linguaggio usati dagli uomini e dalle donne quando parlano a se stessi in quel flusso incessante di discorso non pronunciato ma organizzato, che sottende e avviluppa la comunicazione con l’esterno».
Qui potrebbe precisarsi e trovare conferma il fil rouge di Progetti di delirio, nel copione di Patelli intrecciato alle liriche di Mancini. Nell’inferno di cemento e lamiera, nel girone impazzito delle sonorità assordanti e sgradevoli, l’unico rumore “molesto” sarebbe quindi quello dei versi poetici: inascoltabile, capace di far saltare i nervi al genitore alienato, e tuttavia, per salvaguardarlo, custodito dall’esponente di una gioventù non condizionata, sempre presente in questo lavoro. «Vittime e nello stesso tempo complici di una società che appare impazzita», è spiegato nelle note di regia, quasi «generatrice di paure, appesantita da pensieri deliranti, da tristi illusioni singole e da vanità contingenti ed effimere, schiava di velocità idiote, ci scopriamo desiderosi di qualcosa di diverso, di umano. Forse lo troviamo nei ricordi del nostro passato, nei tormenti interiori che nascondono in noi qualcosa che ci sembra, adesso, profondamente e paradossalmente fuori tempo… la poesia, l’epica umana».
 

D’improvviso, nello spazio del Teatro Ramarini di Monterotondo, dove una serie di quinte nere delimita un secondo sipario “a sacco” a far da terza parete, torna il silenzio, e le luci rischiarano la scena: l’Uomo si avvicina lentamente al tavolino su cui l’oste (lo stesso Alberto Patelli) ha appena disteso un’allegra tovaglia colorata, mentre lo schermo sullo sfondo rimanda il rumore dolce del mare e il lieve sciabordio della risacca. Si snodano i versi magici e ricchi della semantica coinvolgente di Angelo Mancini: «Poesia / libertà / follia / liberazione / (rivoluzione ?) / fuggire fuggire», declama l’uomo, un po’ rinfrancato, «e penso nuovi progetti / e sono sfacciato / farò come sempre / quei pochi lettori / in fondo son buoni”. Spiagge pulite, cielo limpido e sole prepotente, una trattoria solitaria, simile a un miraggio: «Di getto di getto / dovrei lavorare / scorrendo flusso dell’ansia / dei nervi / dei sensi / con dolorosa impazienza / caos di parole / rischio? / (oh severi critici letterari / eque giurie togate / candidi professoroni) / prezzo non hanno / poesia / libertà / follia».
La pièce, ne sono ora convinta, vive oltre i margini di un campo denotativo della parola dove ogni unità di vocabolo e contenuto è necessariamente traducibile con un altro genere di parola: «Entrare, uscire, salire, giacere, pendere sono, per esempio, porzioni di contenuto molto bene segmentate», spiegava Umberto Eco, «le quali riguardano il comportamento corporale». Inoltre, precisava: «Questi “segmenti di comportamento” sono culturalmente catalogati e hanno anche un nome. Tuttavia, le esperienze recenti in cinetica dicono che un gesto può essere descritto molto meglio attraverso una stenografia non verbale per quanto riguarda il piano dell’espressione, e attraverso le registrazioni cinematografiche o risposte comportamentali per quanto pertiene alla descrizione del suo contenuto».
Adottato un simile punto di vista critico ed esegetico, è agevole comprendere a pieno la prospettiva narrativa della trattoria decifrata nell’essenza di episodio dal sapore autobiografico, reso alla massima potenza attraverso il “nome-nomi” di cui dispone, còlto all’interno di tutta la serie di influenze operative e fantasiose citate da Eco. Emergono i confini semantici dell’allestimento di un ricordo, collocato nel segno dello svanire del vincolo coniugale: in una fuga forse gioiosa, di certo nutrita di libertà, nell’ebbrezza di una vita da riconquistare abbandonando il dolore al passato.
 

L’ordinazione all’oste è volutamente esagerata: «Mi porti antipasto di mare, risotto alla pescatora, linguine all’astice, crema di scampi, spaghetti con le vongole veraci, timballo di mare, branzino al caviale, insalata al salmone, scampi alla graticola, cotolette di merluzzo, orata al cartoccio, baccalà coi capperi». Nel primo ‘900, Massimo Bontempelli, scrittore e giornalista, suppongo gradito ad Angelo Mancini, sottolineava: «Il poeta lirico, o poeta puro che dir si voglia, si nutre esclusivamente di insalata, frutta crude, e la domenica formaggio». Poi, nel dettaglio, precisava: «Il poeta impuro, cioè il romanziere, può anche mangiare cose cotte, pur che se le faccia cuocere da sé».
Insomma, la poësis sembrerebbe coltivare «un’idea del cibo felicemente povera e frugale», osserva Maurizio Cucchi, ricordando Arthur Rimbaud in Au cabaret vert, dove il simbolista francese si “accontenta” di prosciutto profumato all’aglio, crostini imburrati e un boccale di birra. Nella trattoria marina di Progetti di delirio siamo invece nei pressi del microcosmo di Carlo Porta, incontenibile estimatore della cucina, e ancor più nell’orbita di Pierpaolo Pasolini: con lui è agevole lasciarsi trasportare nella mente, nell’anima, sul litorale tra Ostia e Torvaianica. Ma come? Quando? Semmai in compagnia di un tavolino su cui sortisca la visione di uno degli “accattoni” accomodati, in un banchetto pantagruelico immateriale, sognante, infinito, di pura immaginazione.
«Dunque lei… è un poeta…», chiede l’oste: «Diciamo che sono l’amico di un poeta…», è la risposta dell’avventore. Si alza, lascia il tavolino, conquista il centro del palco e “porge” i versi di Mancini, enigmatici e con segnali in sospeso, su colui che crede di essere, in alternativa, un guerriero, un profeta, un eroe, un leone, un gorilla, per trovarsi infine - ospite di un manicomio - imprigionato nella camicia di forza: «Solo un poeta / che troppo sente. / Solo un poeta, / forse, son io». Associo al brano alcune note di Umberto Eco, dove è possibile reperire una testimonianza di teoria semiotica del complesso di forze poetiche complementari e antagoniste, le stesse animate nell’opera teatrale in oggetto: «Più un testo è complesso, più complessa appare la relazione tra espressione e contenuto. Ci possono essere semplici unità espressive che veicolano nebulose di contenuto, galassie espressive che veicolano precise unità di contenuto, precise espressioni grammaticali composte di unità combinatorie, che in certe circostanze veicolano drammatiche nebulose di contenuto eccetera».
Come incastrata in un affine flusso di elementarità e complessità sensibili, di unità significative e galassie significanti, mentali e poetiche, recitate o incagliate nel ritmo di versi, scorgo di nuovo la scena avvolta dalla penombra. Il fondale è ora invaso da una luce rossa su cui si agitano silhouette di persone e oggetti: sulla sinistra, una vettura parcheggiata, con il portellone posteriore alzato. Dal background ossessivo dei riff di chitarra elettrica si staglia la voce metallica di uno speaker radiofonico (Edgardo Prosperi): «La luce era rossa radiosa e illuminava la città i bambini giocavano festanti nel bel giardino pubblico gli spettatori si erano abituati ad immaginare il sublime l’auto con il cadavere nel portabagagli fu abbandonata in fretta in una via già ben stabilita». Rivive così, in forma cronachistica d’antan e ben rimodulata nell’involucro scenografico, lo psicodramma più grande del nostro dopoguerra: il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in una stradina del centro storico di Roma.
 

Di nuovo luce sul palco, e ancora il leggio, davanti al quale l’Uomo recita Il caos e la Piramide, tragica rievocazione della morte di Pasolini trasfigurata in metafore “eccessive”, disturbanti, truculente: il poeta, «vestito con una minigonna color lilla», viene accerchiato e mutilato «da donne seminude con stivali anfibi muscoli d’acciaio e folti peli sul petto», quindi lasciato sanguinante sul selciato, esposto ai flash dei turisti giapponesi e alla vigilanza conformista di giovani invasati usciti da una discoteca. Di lato, nel chiaroscuro, la danzatrice in tuta nera attillata segue i versi con movenze stilizzate, fino all’ultima terzina, quando sul palco resta solo un cono di luce.
In omaggio alla società dei testimonial, il brano di Mancini riproduce quel vicino/lontano passato: «Uno psicologo psicopatico insieme ad un / sessuologo sessuofobico / erano stati indicati quali possibili mediatori / in seguito cambiata idea venivano scelti / altri tre mediatori / un prete televisivo omosessuale / un critico letterario di tendenza (incerta) / e un cameriere calvo e storpio di una pizzeria / vicino alla stazione laureato in antropologia culturale / presso la facoltà di sociologia ed esperto / di teorie e tecniche delle comunicazioni di massa».
Trapela qua e là, nella simbologia fitta di tale trama di lessico e messaggio, un tentativo di ricognizione interpretativa di un Logos salvifico, per quanto, a scelta, pagano o spirituale. Ancora George Steiner una volta ha confessato: «È possibile che la nostra civiltà, così imbevuta di rappresentazione nei costumi linguistici e nelle forme estetiche, non sarebbe potuta evolvere, se non avesse violato, magari inconsciamente, il comandamento che vietava la fabbricazione di immagini. È proprio la funzione purificatrice della decostruzione a dimostrare questa trasgressione»: cioè, è qui il caso di suggerire, lo “strappo”, l’inosservanza - ad onta del consentito - della norma di costruire a ruota immagine su immagine per sopravvivere nel vacuo e nell’orrore.
Dal maggio ’78 dello choc di Moro al novembre ’75 del massacro di Pasolini, si continua di nuovo a ritroso, nei primi anni ’70, quando il giovane Mancini animava seminari e corsi specifici all’interno di quella squadra accademica sui mezzi di comunicazione di massa radunato al Magistero di Roma intorno alle cattedre di Ivano Cipriani ed Evelina Tarroni, con la presenza prestigiosa dell’enciclopedico Mario Verdone a dirigere il primo insegnamento di Storia del Cinema (al cui interno, dice la leggenda, riuscisse a bocciare il figlio Carlo presentatosi impreparato…). E quel garçon ferratissimo sui mass media, nella pizza a taglio «vicino alla stazione», richiama la storica sede del Magistero, ai piani alti di un essenziale e moderno palazzo in via dei Mille.
 

Di nuovo rivolto al ristoratore, l’uomo commenta: «Eeeh, quel mio amico poeta! Non deve essere facile sentirsi così… come dire?… inseguiti su un asse di equilibrio e incerti sull’esito dell’eventuale caduta: ci si schianterà su un incubo, su una farneticazione o su che altro? ma poi, secondo lei, oggi come oggi, un poeta ha un senso?». Quando dalle quinte fa capolino un’ammiccante ragazza in bikini rosa, l’avventore dimentica per un attimo i dubbi che lo assalgono («Il delirio è l’unica possibilità, di questi tempi, per sentirsi liberi da tutto, compresi noi stessi?») e si lancia con lei in un balletto arroventato («Fuoco, fuoco / nei capelli / nel cervello / nelle mani. / Fuoco, fuoco / nelle braccia / nelle gambe / nelle vene»).  Subito dopo, con un rapido cambio di abito, la giovane rientra fasciata di lamè e orlata di tulle vaporoso, a intrecciare passi di danza con l’oste il quale, chaplinianamente, tiene in precario equilibrio un piatto di cozze.
«Ecco, basterebbe questo», commenta l’Uomo, «basterebbe insomma che ognuno di noi riuscisse a tirar fuori quel poco di poesia che nasconde con paura dentro di sé, per dare al poeta la forza di scrivere ancora, nonostante tutta l’assurdità della vita che percepisce…». Risuonano, in complessi semantici così organizzati, alcuni concetti espressi dal professor Emilio Garroni: «Vuol dire anche che la consapevolezza delle condizioni del parlare e del conoscere, non semplicemente passa attraverso il linguaggio, così come passa attraverso l’operazione [di lingua-codice] ma, per così dire, si ferma in esso, si istituzionalizza in linguaggio, si proietta e si specifica insomma in “strutture forti”». Ebbene, forti e robusti, benché aperti e polisensi, sono dunque gli intrecci di regole formali e logiche, di stile e contenuto attualizzate e animate nell’intero spettacolo di Patelli, dotati di un’intensa stabilità diacronica (vale a dire: del “mentre si racconta”), veicolata dalla sincronia (in un insieme di associazioni suggerite del versificare dei brani di Angelo Mancini).
 
 
Adesso rinfrancato dal cibo, dal vino, dalla sensuale bellezza, dalla compagnia dell’interlocutore, cullato dall’eco del mare, l’avventore si lancia in un’appassionata interpretazione del brano Funerale a Carnevale (tra i miei preferiti del repertorio manciniano): «Che spettacolo stupendo / ci propone questa vita!  / Non ci si capisce niente: / tutto è assurdo, incoerente… / È un teatro straordinario / che incomincio ad apprezzare; / or ne son certo, sicuro… / e vi prego, vi scongiuro, / non calatemi il sipario… / non calatemi… il sipario…».
Ora cresce la luce sul fondale: il ragazzino (Alessandro Stufera), tornato in scena, abbandona il banco e con l’uomo si incammina lentamente verso il proscenio, nella direzione del pubblico. Nel foglio tenuto in mano, il testo della poesia Un graffio al cuore, con le ultime righe: «Com’è difficile, / amore, / fare poesia / oggi / tra finti / gretti / untuosi commerci / che stancano / e graffiano il cuore…». Ma la volontà di resistere (per orgoglio? vocazione? follia?) ha il sopravvento: «Anche se il sole, / ormai, / è dietro le spalle / e la penna, / che scorre sul bianco quaderno, / è già spuntata… da un pezzo…».
Con queste battute finali, i due invertono il cammino e scompaiono sul fondo. Il finale di Progetti di delirio di Patelli e Mancini conduce in un tramonto, naturale e umanissimo, nel momento stesso in cui auspica e promuove un’alba a venire, una rinascita. Nel doppio senso della parola “spuntata” che accomuna l’illuminazione immensa dell’aurora alla pratica di scrittura fisica, concreta, materiale, di ogni scrittore. Purtroppo, quando esco dalla sala, è notte, e dovrò aspettare ancora qualche ora per cercare di vivere quel genere di aurora.
 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del pezzo.

 


 

Progetti di delirio

testo di Alberto Patelli
liriche di Angelo Mancini 
con Corrado Bega (l’Uomo), Alberto Patelli (l’oste),  Francesca Cama (la danzatrice), Alessandro Stufera (il ragazzino), Tony Fusaro (l’uomo di strada), Edgardo Prosperi (voice over) 
organizzazione generale Alessandro Cialli, musiche Davide Di Francescantonio, direttore di scena Primo Mancini, fonia e luci Saverio de Iorio, animazione video Rocco Lotito, fotografie Officine Visuali - Wedding Photos & Films 
regia di Alberto Patelli 
Organizzato dall’Ass.ne Culturale “Camera 23” in collaborazione con il Comune di Monterotondo e la Fondazione ICM.
 
 
 
 

 

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